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La fine del TFR: il punto di vista degli investitori.

on 12 Ottobre, 2014

Il Presidente del Consiglio conferma l’intenzione di anticipare il TFR in busta paga. Del resto, se si può fare senza danneggiare l’equilibrio finanziario di quelle stesse imprese a cui si richiede di mantenere e accrescere l’occupazione, perché non dare una possibilità in più ai lavoratori? Eppure c’è un motivo finora poco considerato per ritenere che non si tratti di una buona idea. Perché renderebbe impossibile la realizzazione di quel fondo d’investimento per la crescita che il mondo della previdenza sta cercando di costruire, non senza difficoltà. Riconsideriamo, quindi, l’intera questione. Per uscire dalla crisi le risorse sono poche, per definizione, e molte le cose da fare. Dobbiamo stimolare gli investimenti in capitale fisso e rilanciare i consumi, cioè le due componenti portanti della domanda aggregata. In più, abbiamo da rimpolpare le pensioni, sostenendo il secondo pilastro a capitalizzazione individuale. Quel che è certo è che non possiamo raggiungere tutti e tre gli obbiettivi spendendo su tre fronti, contemporaneamente, la medesima risorsa scarsa.

E’ qui che entra in gioco il TFR maturando. Pur avendo già natura duplice, tra paga differita e risparmio previdenziale, a seconda del volere del lavoratore che ne è il vero titolare, si vorrebbe trasformarlo anche in retribuzione immediata. Per lo meno in parte. Il buon senso porterebbe a dire: delle tre, l’una, ma quel che insegna l’economia è che, al massimo, si possano raggiungere due obbiettivi con un unico mezzo; non certo tre. Si chiamano trilemmi, da quando si dimostrò che si potessero avere, contemporaneamente, solo due di queste cose: un cambio stabile, la piena libertà nei movimenti di capitale e una politica monetaria indipendente.

Quel che è certo, nel nostro caso, è che se si aggiungesse una terza destinazione al TFR, la previdenza complementare, con la sua auspicata capacità di finanziare gli investimenti, s’impianterebbe del tutto. Perché i lavoratori sarebbero indotti a rivedere le loro scelte in materia di risparmio previdenziale. Come si dice: meglio un uovo oggi, che una gallina domani, ma anche perché l’incertezza normativa così ingeneratasi porterebbe i lavoratori ad incamerare il TFR, prima che se ne trovi qualche ulteriore destinazione. Resteremmo disarmati di fronte alla bomba ad orologeria delle pensioni pubbliche, finanziate a ripartizione. Il criterio di corrispettività su cui oggi è imperniato il calcolo delle prestazioni non è sufficiente, purtroppo, a garantire tassi di sostituzione accettabili, dati i trend demografici e la bassa crescita del PIL.

E’ bene dunque evitare di lasciarsi tentare dall’aggiungere nuove finalità al TFR. Come unico effetto certo si ha quello di accrescere l’incertezza del suo quadro normativo e scoraggiare viepiù i lavoratori dall’aderire alla previdenza integrativa. Indubbiamente, si deve trovare uno stimolo forte ai consumi, ma non lo si può che fare seguendo la via maestra della riduzione delle tasse sul lavoro e sulle imprese.

Quel che invece si può e si deve fare è di creare le condizioni affinché una quota maggiore del nostro risparmio previdenziale venga allocata per finanziare gli investimenti produttivi in Italia; siano essi opere infrastrutturali, nuovi macchinari, o nuove imprese. Questo tipo di sostegno alla domanda aggregata avrebbe un effetto immediato a favore della circolazione dei redditi e quindi dell’occupazione, ma anche uno a medio termine, di accrescimento della produttività totale dei fattori e, quindi, di miglioramento della nostra competitività internazionale. Nel mondo della previdenza, negli ultimi mesi, c’è stata piena sintonia sull’idea di costruire uno strumento su misura; un fondo d’investimento che operi, inizialmente, soprattutto come fondo di fondi. Il sostegno all’idea deve essere corale e ci deve credere il Governo, se si vuole raccogliere l’effettiva adesione dei Fondi Pensione Negoziali, oltre che delle Casse di previdenza La posta in gioco è enorme, non tanto per le cifre che si possano movimentare, da subito, ma per il segnale che si da al resto del mondo e, quindi, agli altri investitori istituzionali. Se non ci crediamo noi, nel futuro del nostro Paese, perché dovrebbero crederci gli altri?

Roma, 06/10/2014                                                        Michele Tronconi - Presidente di Assofondipensione