Previdenza in concorrenza, 03/06/2015

on 17 Giugno, 2015

Previdenza in concorrenza.

Ora che le elezioni regionali sono alle spalle si può tornare a discutere dei problemi del Paese senza rischi di strumentalizzazioni. La questione che riguarda la previdenza complementare, dopo gli interventi della Legge di Stabilità sulla tassazione e sul TFR in busta paga, per altro già bocciato dai fatti, è ora il ddl Concorrenza. Un richiamo all’efficienza di mercato che fa da viatico al testo e produce un effetto manicheo; chi si dice contro è come se volesse dar torto alla ragione. Eppure l’articolo che modifica la ‘portabilità dei fondi pensione’ è un crogiolo di errori. Forse è la conseguenza di un malinteso di fondo; l’equiparazione dei Fondi Pensione Negoziali con i loro omologhi del nord Europa. Si confronta, però, una storia centenaria con quella poco più che decennale dei nostri, dimenticando che essi sono essenzialmente dei consorzi di acquisto e non degli enti gestori, giacché la legge che li ha istituiti ha ritenuto che questo fosse il modo più pratico per risolvere certe asimmetrie informative. Essi, infatti, non impiegano direttamente i risparmi che ricevono dagli aderenti, ma li raggruppano in comparti dandoli in gestione a operatori specializzati, dopo averli messi in concorrenza tra di loro anche in base ai regimi commissionali. Al malinteso si aggiunge l’abbaglio, infatti il ddl proposto dal MISE parte dal presupposto che il sistema sia poco efficiente, cioè poco redditizio, quando invece le nostre performance costituiscono una vera storia di successo, come dimostra la tabella. Ecco, allora, cosa potrebbe accadere se il provvedimento passasse indenne al vaglio parlamentare. Innanzitutto, si metterebbero in competizione dei veicoli (i Fondi Negoziali), con dei prodotti (i PiP - piani individuali di previdenza), facendo saltare la logica multi-pilastro su cui dovrebbe poggiare il nostro sistema pensionistico. Dove i suoi tre elementi costitutivi, a partire da quello pubblico a carattere obbligatorio, non dovrebbero essere alternativi, ma complementari l’uno con l’altro. Ciò al fine di assicurare tassi di sostituzione più soddisfacenti. Inoltre, si imboccherebbe un approccio scorretto alle asimmetrie informative che caratterizzano tale mercato. Pur con il lodevole obbiettivo di ampliare il mercato del risparmio previdenziale, s’incentiverebbe solo i PiP a carpire gli aderenti ai Fondi Negoziali per incamerare la dote del contributo datoriale, con un effetto a somma zero per quanto riguarda le adesioni complessive alla previdenza complementare. Mentre l’altro obbiettivo, quello di favorire la massimizzazione dei rendimenti, verrebbe perseguito senza tenere in considerazione l’effetto dei margini commissionali sulla formazione dei montanti. Per inciso, proprio per la loro logica costitutiva, i Negoziali hanno un costo medio dello 0,23% all’anno (ISC calcolato da Covip), mentre i PiP costano in media l’1,63%. Vuol dire che a parità di versamenti nominali e di rendimenti annui lordi, dopo 35 anni, gli aderenti ai negoziali ottengono circa il 30% in più di chi abbia optato per un PiP. Sempre in materia di rendimenti, si sorvolerebbe sul fatto che il risparmio venga effettivamente gestito da un ridotto numero di operatori specializzati, portando a rendimenti non molto dissimili fra di loro; per questo è più importante ridurre l’incidenza dei margini commissionali, che illudersi di trovare il gestore col tocco di re Mida. In definitiva, non c’è alcun fondamento economico affinché lo Stato debba favorire gli enti profit oriented rispetto a quelli no profit; è come se si volesse imporre di far pagare il biglietto per entrare in chiesa, per mettere sullo stesso piano il costo di andare al cinema. C’è da chiedersi, quindi, perché si voglia mettere in difficoltà la solidarietà a favore del profitto, per quanto lecito. L’auspicio è che il Parlamento, invece di trovare una risposta, cambi la domanda.

                                                             Michele Tronconi - Assofondipensione

Tabella

 

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