Etica e Impresa

on 20 Giugno, 2016

Per uscire dalla crisi.

Riflessioni sull’etica in economia.

 

L’impianto di queste note deriva da una relazione tenuta al Rotary Malpensa, nel novembre 2008. La Lehman Brothers era da poco fallita archiviando una delle convinzioni empiriche su cui poggiava la sicurezza di molti operatori economici, quella del “too big to fail”. Il ricorso a qualche barzelletta, nonostante la serietà dell’argomento, fu un espediente retorico che ritengo utile riproporre a distanza di qualche anno. Il tema dell’etica in economia rimane tra i principali snodi per uscire dalla Grande Recessione, anche se non basta parlarne perché la crisi finisca.

 

 

Fare bene. I beni dell'imprenditore.

 

Per introdurre il tema dell’etica professionale, vorrei ricordare, innanzitutto, che così come ci sono dei comportamenti giusti e dei comportamenti sbagliati, secondo la deontologia professionale, allo stesso modo il comportamento di una certa persona può risultare condizionato dalla professione che svolge.

A tal proposito, ricordo una storiella: Quattro medici - un medico di famiglia, un ginecologo, un chirurgo e un anatomopatologo - si ritrovano per andare a caccia di anatre. Ne passa uno sopra le loro teste: il medico di famiglia alza il fucile, ma poi lo abbassa perché non è assolutamente certo che si tratti di un'anatra. Il ginecologo alza anche lui il fucile, ma poi lo riabbassa perché non riesce capire se è maschio o femmina. Nel frattempo il chirurgo fa fuori l'uccello, si volta verso l'anatomopatologo e gli dice: “Và a vedere se era un'anatra”.

Questa storiella mi dà l’occasione per ricordare che sono un imprenditore e che, dovendo parlare di chi fa il mio mestiere, non potrò che parlarne complessivamente bene. Per lo meno, per una questione di coerenza. Per inciso, parafrasando il titolo, sono convinto che il “fare bene” dell’imprenditore crei valore per sé e per l’intera società.

Ma procediamo per gradi.

Sin dalla sua origine nell'antica Grecia, la riflessione sull'etica ha un duplice risvolto: quello puramente descrittivo, su quali siano i criteri con cui dirimere i comportamenti giusti da quelli sbagliati, e quello normativo. Quello, cioè, che individua quale sia il comportamento giusto ex ante, da seguire in una data situazione. In altre parole, l’etica vista come regola di comportamento.

Seguendo tale risvolto si è giunti ai temi dell’etica professionale, riferiti alle specifiche professioni che popolano la nostra Società. Ciò, fino a comprendere, da ultimo, l’imprenditore e l’impresa.

Dico “da ultimo”, perché per molto tempo l’attività dell’impresa è stata parzialmente sottratta a tale riflessione, sulla scorta della convinzione che la sua unica responsabilità sociale fosse quella di produrre il massimo profitto possibile, senza infrangere la legge.

Questa concezione è invalsa soprattutto in America, nel dopoguerra, sulla spinta degli economisti neo-liberisti a partire da Milton Friedman, dell’Università di Chicago. Tuttavia, è proprio in America che si è poi sviluppata la riflessione sull’etica delle professioni, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Ciò, fino a comprendere l’attività d’impresa, con l’avvio delle cosiddette strategie etiche e con la rivalutazione della Corporate Social Responsibility. Quella stessa che gli economisti neo-liberisti avevano accusato di essere una sorta di zavorra costosa, contraria ai canoni dell’efficienza e della massimizzazione degli utili per gli azionisti, cioè degli shareholders.

Oggi, in America si dice che “perfino” gli avvocati abbiano un'etica professionale. Per esempio, se un cliente dà a un avvocato 400 Dollari per pagare una parcella di 300, la questione etica che si presenta è ovviamente la seguente: l'avvocato deve dirlo al suo socio?

Questo aneddoto, volutamente ironico, ci ricorda uno degli snodi fondamentali di tutto il discorso: verso di chi deve sentirsi responsabile l’impresa? In altre parole, il comportamento giusto è da ritenersi tale nei confronti di chi?

Ogni decisione e ogni azione, possono risultare in un bene per qualcuno, costituendo, al contempo, uno svantaggio, o addirittura un danno, per qualcun altro.

Per fare degli esempi attinenti, anche se al limite della condotta illecita, pensiamo all'abuso di posizione dominante e al ricorso ai comportamenti cosiddetti escludenti. Può capitare che un’azienda di grandissime dimensioni, grazie alle elevate economie di scala, pratichi dei prezzi di esclusione per spingere fuori dal mercato i concorrenti più piccoli. Nell’operare in danno di questi concorrenti, si produce però, per lo meno a breve termine, un vantaggio per i consumatori che potranno pagare prezzi più bassi. Questo, anche se lo scopo dell’azienda di grandi dimensioni è quello di raggiungere una posizione monopolistica che gli consentirà, poi, di far salire i prezzi a scapito del benessere generale.

Per altro, anche il monopolio comporta una certa ambivalenza. Secondo le analisi avviate da Schumpeter, esso incoraggerebbe le spese in ricerca e sviluppo conferendo un premio adeguato agli sforzi innovativi.

Visto che il tema dell’etica dell’impresa - e nell’impresa - si collega all’ambivalenza delle sue azioni, è stato sviluppato un approccio teorico che sostituisce la centralità degli shareholders, cioè degli azionisti, con quella degli gli stockholders, cioè di tutti i portatori di interessi nei confronti dell’impresa. Ciò, a partire dagli azionisti, per passare ai clienti, ai fornitori, ai lavoratori, alla comunità dove l’impresa è insediata, fino all’ambiente, nel senso più esteso del termine. Questa impostazione aiuta a declinare le responsabilità dell’impresa, lasciando all’imprenditore, o al management, di decidere, di volta in volta, il giusto bilanciamento dei vari interessi in gioco, nel diuturno confronto concorrenziale che avviene sul mercato.

E’ utile, a tal proposito, fare un ultimo esempio di ambivalenza, con risvolti ancora più intensi per la coscienza personale dell’imprenditore, o del manager. Si pensi alle decisioni di ridimensionamento dell’organico, per affrontare una grave crisi del mercato. Per chi sarà licenziato, la decisione risulterà ingiusta. Per tutti gli altri, invece, tale sacrificio potrà consentire il proseguimento dell’attività lavorativa. L’imprenditore non potrà mai decidere pensando di soddisfare tutti, contemporaneamente.

Se il medico porta con sé la guida del giuramento di Ippocrate, che si poggia sul precetto: primum non nocere, la bussola dell’imprenditore non può non puntare al profitto, inteso come creazione di valore, per sé, ma anche per gli altri. Un valore, cioè, che può essere diffuso, distribuito o ridistribuito. L’imprenditore che perda questa bussola farebbe come il medico pietoso che rinvia l’intervento chirurgico, riducendo le speranze di vita del paziente.

Tuttavia, come ogni bussola essa ci indica una direzione e non come svolgere il cammino. Per cui ci ritroviamo, in un certo senso, punto e a capo di fronte all’ambivalenza e alla relatività dei temi etici, che non possono essere elusi, ma che non si risolvono automaticamente, applicando precetti generali a situazioni particolari.

Indubbiamente, il modello degli stockholders è alternativo a quello degli shareholders anche dal punto di vista del modo di condurre gli affari e della visione imprenditoriale. Ricordo la risposta che mi diede un’illustre collega, tra i più importanti industriali Italiani nel settore del caffè, quando gli chiesi perché non avesse quotato in borsa la sua Società. Mi disse che non voleva avere altro assillo che non fosse la soddisfazione dei suoi clienti. Aggiunse: “Se la mia attenzione fosse continuamente distratta dal corso di borsa delle azioni, allora l’orizzonte della mia gestione, così come di quella del management, diverrebbe solo di breve termine. La creazione del valore che si offre ai clienti richiede, invece, continui investimenti che ritornano col tempo. La finanza è un mezzo e non il fine della mia impresa”.  

Eccoci ad affrontare un aspetto estremamente critico per la grande crisi economica che stiamo attraversando, quello che gli stessi americani indicano come: “Short-termism”; l’eccessiva focalizzazione sui risultati a breve termine. Verrà da chiedersi cosa centri questo con l’etica e con la ripresa economica. C’entra, perché a furia di preferire l’uovo oggi alla gallina domani, stiamo rischiando di rimanere senza rincalzi di ovaiole. La coincidenza tra etica ed economia sta nel pensare a fare la cosa giusta, in maniera che sia produttiva di risultati nel tempo; in modo tale che ciò che appare conveniente oggi, sia tale anche quando la considereremo domani. E qui ci soccorre la saggezza antica, quella che ci insegna che si raccoglie solo ciò che si semina; la valenza etica del risparmio sta nell’essere consumo rinviato nel tempo, per poter vivere domani con la stessa dignità con cui viviamo oggi.

Tuttavia, il contesto non va mai dimenticato. Come già ricordato, l’imprenditore opera nel mercato competitivo. Secondo il meccanismo della mano invisibile, è proprio grazie alla concorrenza e al fatto che tutti cerchino di tutelare i loro interessi, che si ottiene un benessere generale. Sappiamo, però, che il mercato, da solo, non è in grado di sviluppare certi beni pubblici o di evitare alcuni effetti indesiderati, quali le esternalità negative; come l’inquinamento dell’ambiente. E’ un tema, questo, che è divenuto centrale nella definizione della responsabilità sociale dell’impresa.

Un altro economista di nome Friedman, Benjamin Friedman, dell’Università di Harvard, ha pubblicato un libro dal titolo molto significativo: “Il valore etico della crescita”. In esso si afferma, tra l’altro, che il meccanismo dei prezzi, da solo, non sia in grado di evitare che le azioni compiute dai privati, quindi dalle imprese, possano provocare effetti negativi sul resto della società o, addirittura, sulle generazioni future.

E’ evidente, perciò, che oltre ad un maggior senso di responsabilità delle imprese debba per forza di cose intervenire la mano pubblica e la legge, ad indirizzare, limitare e sanzionare quei comportamenti dei privati che si risolvano, nel tempo, in un danno superiore e più vasto, rispetto agli eventuali benefici di breve termine. Sempre che la legge non ricada nel medesimo errore, cioè di essere scritta da un Parlamento preoccupato solo delle prossime elezioni.

Il discorso non è certo semplice. Per esempio, il riferimento ad elevati standard sociali ed eco-tossicologici, imposti per legge o liberamente adottati, comporta quasi sempre costi di produzione più elevati rispetto ai concorrenti presenti sul mercato globale, che non osservino i medesimi standard. Il problema si pone con riferimento alla libertà di mercato, considerata anch’essa come un valore in sé, da rispettare, dove l'acquirente può semplicemente preferire il prezzo più basso, rispetto al prodotto di maggior valore, realizzato in modo virtuoso, ma anche più costoso. È questo un problema che potrebbe essere risolto, in parte, attraverso una maggiore trasparenza del mercato, nonché trasformando il rispetto a certi valori – etico-sociali ed eco-tossicologici - in veri e propri driver di acquisto.

Purtroppo, questo tipo di necessità sfugge, assai spesso, alle autorità pubbliche che si limitano ad alzare le asticelle – cioè gli standard da osservare – pensando che basti ciò a innescare un processo di compliance innovativa, da parte delle imprese. L’incentivo può operare, invece, in senso opposto, stimolando la fuga delle imprese verso i pollution heavens. Attraverso, cioè, la delocalizzazione di certe produzioni verso i Paesi con meno leggi a protezione dell’ambiente. Proprio come è avvenuto nella fase calda della Globalizzazione, a cavallo del nuovo millennio. In questo modo, però, il danno ecologico non è stato affatto evitato e oggi lo conosciamo sotto forma di surriscaldamento globale. Ecco perché su certi temi esistono solo due possibilità: o si fa appello ad un coordinamento internazionale, per cui certi standard e certe regole valgono per tutti; oppure i Paesi che adottano gli standard più virtuosi e costosi trovano il modo di incentivarne il rispetto, invece che limitarsi a punire chi li disattende.

La diversità degli standard sociali ed eco-tossicologici ci riporta al tema del relativismo etico, ben rappresentato dal pensiero di Pascal : “Ciò che è vero al di là dei Pirenei è falso al di qua”. Questo non significa, tuttavia, che non esistano riferimenti o che tutto ricada nel libero arbitrio. Anzi. Come ha scritto il filosofo Dario Antiseri, proprio per rivalutare la coscienza dell’individuo nella scelta dei valori morali cui aderire: “Pluralismo, dunque scelta; scelta, dunque libertà; libertà, dunque responsabilità”. Questo vale per chiunque, anche per l’imprenditore e per la sua impresa.

Per quanto riguarda i riferimenti, cito un esempio che è tra quelli con cui sono stato cresciuto: “La migliore delle speculazioni è l'onestà”. Questo era ciò che diceva mio nonno a mio padre, e che questi ha iniziato a ripetere a me, quando ho iniziato ad avvicinarmi al lavoro.

Quando parliamo di economia e di affari, parliamo in prevalenza di giochi ripetuti dove, cioè, i comportamenti precedenti di chiunque – quindi la sua reputazione – spingono chiunque altro a tenere un atteggiamento speculare: per esempio, di fiducia e di collaborazione, oppure di sfiducia, o addirittura di rivalsa. In altre parole, qualsiasi comportamento ritenuto eccessivo o non onesto, può venire stigmatizzato e ridurre le opportunità di business di quel imprenditore, o di quell’impresa. In un certo senso, l'etica dell'impresa viene a trovarsi spesso in un legame circolare con la convenienza. Ecco perché l'onestà è la migliore delle speculazioni.

Mi avvio a concludere.

Ho detto ripetutamente che il punto nodale nell'etica dell'impresa non stia tanto nel definire che cosa sia giusto, o che cosa sia meglio, ma per chi sia giusto e per chi lo sia meno. Ho ricordato, a tal proposito, come il modello economico focalizzato sugli shareholders possa essere sostituito da quello imperniato sugli stockholders. Inevitabilmente, tuttavia, ogni condotta produce effetti diversi sui diversi portatori di interessi. Ciò che è bene per qualcuno, può essere un danno per qualcun altro. Raramente esistono decisioni che favoriscono tutti, contemporaneamente. Tuttavia il ruolo dell'imprenditore come prenditore di decisioni permette all'impresa e alla società in cui è inserita, di soddisfare bisogni materiali con un'efficacia è un'efficienza che è tanto maggiore quanto più funziona il gioco competitivo, basato sulla reputazione e sulla fiducia nei confronti di chi ne è meritevole. Resta impossibile, però, stabilire delle regole di condotta valevoli per ogni situazione. In un certo senso, il comportamento giusto risulta tale solo ex post e dipenderà dagli elementi specifici di quella data situazione. Questo non toglie nulla al fatto che l’imprenditore, come ogni essere umano, sia un essere responsabile; che interroga il Mondo e che al Mondo risponde.

Ho iniziato col raccontare una storiella e vorrei terminare allo stesso modo, sottolineando come possa succedere, in una situazione concreta, che non basti rispettare le regole – tipo, mantener fede agli impegni - per risultare totalmente corretti. Come avrete capito, il discorso sarebbe ancora lungo. Forse, anche un po’ indigesto, data l’ora della nostra conviviale. Ecco, quindi, un esempio che spero ci farà sorridere.

Alcuni rapinatori armati fanno irruzione in una banca; mettono in fila contro il muro tutti i clienti e il personale e cominciano a sottrarre portafogli, orologi e gioielli. Tra coloro che aspettano di essere derubati ci sono due imprenditori. Improvvisamente il primo mette qualcosa nelle mani del collega. Questi gli sussurra: “Cos'è?”. “Il saldo della fattura che ti devo” risponde l’altro.

19/11/08

                                                                                     Michele Tronconi

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